Richard Misrach: Violent Legacies
- colin dutton

- 16 lug
- Tempo di lettura: 6 min
Ogni tanto rivisito alcuni dei libri di fotografia e altre cose sui miei scaffali. Questa volta abbiamo . . .

Se conoscete il lavoro di Richard Misrach, potreste rimanere sorpresi dalla copertina di Violent Legacies, un libro pubblicato nel 1992 come parte della serie Desert Cantos. Misrach è conosciuto per i suoi paesaggi silenziosi e i cieli dai toni pastello. I suoi soggetti sono solitamente distanti e il suo stile elegante e contemplativo, capace di rivelare significati attraverso i segni sottili lasciati dall’uomo in un paesaggio arido. La copertina di Violent Legacies, invece, è tutta un’altra storia. È urlata, quasi aggressiva – letteralmente “in faccia”, o almeno sul volto di Ray Charles: la sua superficie cartacea violentemente lacerata e segnata da fori di proiettile.
Fin dalla copertina, dunque, il libro suggerisce una deviazione dallo stile consueto di Misrach, e per quanto mi riguarda, va benissimo così. Ci sono molte storie da raccontare, e molti modi per raccontarle.
Una volta aperto il libro, una mappa del Nevada e dello Utah ci orienta geograficamente, mentre un testo di Susan Sontag lo inquadra in modo metaforico: un dialogo giocoso tra un uomo sull’arca di Noè e una colomba che vola avanti e indietro sopra le acque sommerse, portando un monito all’umanità. È un avvertimento che ritroviamo nelle fotografie che seguiranno, da non ignorare a nostro rischio e pericolo.
Il libro è suddiviso in tre capitoli, o canti, come li chiama Misrach. Si tratta di un espediente letterario usato da Dante nella sua Divina Commedia per suddividere un’opera lunga in sezioni più gestibili, ciascuna con un proprio stile o struttura. È qualcosa che ha permesso a Misrach di lavorare in parallelo su progetti distinti, ma legati da un tema generale e di lungo termine: in questo caso, il deserto dell’ovest americano e il punto di contatto tra natura e civiltà. Violent Legacies presenta tre di questi canti, e sebbene abbiano formati molto diversi, condividono temi legati alla violenza; in particolare, la penetrazione del mondo militare nel paesaggio e nella cultura statunitensi.
Sono un grande estimatore di Richard Misrach. Di recente mi è stato chiesto di scegliere otto libri da portare con me su un’isola deserta, e il suo On Landscape and Meaning era tra quelli. Immagino sia stato un ottimo mentore e insegnante per chi ha avuto modo di conoscerlo. Detto questo, Violent Legacies ha sollevato alcune perplessità, sia formali che concettuali (ci arriveremo più avanti). Ma non è necessariamente un male – l’arte, in fondo, dovrebbe correre dei rischi e saper provocare.

Il primo canto, Project W-47 (The Secret), ci porta subito in un territorio familiare per Misrach. Si tratta di immagini serene di quello che un tempo era un sito per test atomici nel deserto del Nevada, il luogo in cui l’Enola Gay e le sue “little boys” furono assemblate e testate (anche se mai ufficialmente riconosciuto). Come spesso accade con Misrach, la serenità apparente nasconde una verità catastrofica… o, in questo caso, una storia catastrofica. In effetti è difficile conciliare questi paesaggi tranquilli, con i loro edifici improvvisati e i graffiti infantili, con l’orrore inflitto dall’altra parte del mondo, a Hiroshima e Nagasaki.

Questa lettura del deserto come luogo di un trauma storico mi ha ricordato uno dei miei progetti, una serie di paesaggi costruiti digitalmente che ho realizzato alcuni anni fa mettendo insieme minuscoli frammenti di immagini satellitari come un mosaico. Uno dei pannelli che ho creato (vedi qui) riunisce i numerosi crateri da subsidenza presenti in quest’area del deserto del Nevada, ciascuno risultato di un test atomico. In questo senso si tratta di un paesaggio che segna l’inizio dell’Antropocene: il periodo in cui l’attività umana è diventata la forza dominante sugli ecosistemi del pianeta, contrassegnato dalla presenza di ricadute radioattive. Le immagini di Misrach sembrano congelare quel momento nel tempo, e l’immensità del paesaggio rafforza il carattere planetario dell’evento. Viste in questo contesto, le trovo estremamente toccanti.


Scorrendo però le immagini, emerge un’ironia difficile da ignorare. Hiroshima e Nagasaki sono state ricostruite e riabilitate come città moderne e vivaci, mentre nel deserto del Nevada – lontano da qualsiasi campo di battaglia – la traccia della violenza è ancora presente. Crateri di bombe, tossine sepolte e infrastrutture militari abbandonate sono le cicatrici di un luogo che non è mai stato veramente riconosciuto, solo nascosto e recintato.


Il secondo canto presentato in Violent Legacies si intitola The Pit. È quello con cui ho più difficoltà, anche se magari mi sbaglio. Misrach apre questa sezione con un racconto documentato su un gregge di pecore morte dopo essere stato esposto alle ricadute radioattive di un test atomico negli anni ’50. Seguono una serie di fotografie realizzate alla fine degli anni ’80 che mostrano le carcasse di animali ammassate in una fossa aperta. Ovviamente non si tratta degli stessi animali citati nel racconto, ma l’intento è quello di suggerire un legame con la militarizzazione e la contaminazione del territorio che ne è derivata.
Devo dire che qui faccio un po’ fatica. In questa parte del mondo è normale che gli animali muoiano e vengano sepolti in fosse comuni, e l’affermazione che “alcuni sono morti per cause sconosciute” non mi sembra sufficiente. Forse c’era davvero un legame con le ricadute radioattive o con l’inquinamento dell’acqua causato da attività militari, ma al tempo non c’erano certezze. Se l’obiettivo è quello di provocarci a una presa di coscienza, credo che sia importante distinguere tra un’ipotesi suggerita e un fatto documentato. È una questione delicata, forse perché considero Misrach un fotografo documentarista… ma, aspetta un attimo, che cosa significa davvero “documentarista”? Un altro bel vaso di Pandora.




Restando ancora un momento su The Pit, dal punto di vista formale e fotografico notiamo un evidente cambiamento nello stile e nel soggetto. Nella sequenza delle immagini, Misrach ci conduce dai segni degli pneumatici che portano alla fossa in superficie giù in una sorta di mondo sotterraneo, un inferno, dove l’orizzonte scompare e le carcasse degli animali si ammassano e si contorcono le une sulle altre, mezze sepolte nella polvere, mezze in decomposizione. Verso la fine della sequenza ci riporta in superficie, attraverso scheletri e acqua stagnante, fino ai solchi lasciati dai mezzi sul terreno.
A differenza delle sue altre immagini, più distaccate e sfumate, qui Misrach lavora molto più vicino al soggetto, costruendo composizioni intenzionali a partire dai corpi deformati. Alcuni lo hanno accusato di fare “poesia dell’olocausto” con questa serie, ma lui risponde che la qualità estetica ha un ruolo importante nel catturare l’attenzione del pubblico e nel veicolare un messaggio politico.
“Ho finito per credere che la bellezza possa essere un mezzo molto potente per comunicare idee difficili. Coinvolge le persone proprio quando altrimenti potrebbero voltarsi dall’altra parte.”
— Richard Misrach, Violent Legacies – Intervista con Melissa Harris

Il canto finale di Violent Legacies si intitola The Playboys. Anche in questo caso l’approccio formale e concettuale è diverso, portandoci ancora più vicini all’atto di violenza, al punto da poter quasi toccare e percepirne l’impatto. La serie ruota attorno a due copie della rivista Playboy che Misrach ha trovato nel deserto. Erano state usate come bersagli per esercitazioni di tiro, come spesso accade da quelle parti (più comunemente con barattoli o bottiglie).
Sebbene il bersaglio fosse la ragazza sulla copertina, i proiettili hanno attraversato l’intera rivista, lasciando il loro segno — la loro violenza — su tutte le pagine. Misrach portò le riviste a casa e le fotografò da vicino, isolando alcuni dettagli attraverso l’inquadratura della sua macchina fotografica. Quello che ne emerge è una metafora della pervasività della violenza all’interno di più livelli della cultura e del consumismo americani. Si parte dalla misoginia e dalla violenza contro le donne, e si passa attraverso cinema, letteratura, storia, musica, religione e pubblicità — ognuno segnato e lacerato dal passaggio dei proiettili.





Pur non essendo forse il libro più coeso visivamente di Misrach, Violent Legacies offre comunque una potente riflessione sulle cicatrici che lasciamo dietro di noi. È un lavoro interessante, in un certo senso anche sperimentale, e sebbene io faccia fatica con alcuni aspetti del libro preso da solo, visto come parte di un corpus più ampio questi tre canti hanno certamente una storia da raccontare.
Come in gran parte del lavoro di Misrach, il paesaggio diventa metafora di questioni sociali più ampie — in questo caso la militarizzazione, la violenza e la distruzione ambientale. Queste sono immagini politiche, e Richard Misrach utilizza il paesaggio desertico e gli oggetti che vi si trovano per rivelare un senso: qualcosa sulla nostra cultura e sul nostro rapporto con il mondo naturale, qualcosa da cui potremmo imparare e, in ultima analisi, trarre uno spunto per agire.
Questo è importante per me: penso che tutti i paesaggi abbiano una storia da raccontare, e che ci siano molti modi diversi per raccontarle. So che è una motivazione di fondo anche nella mia fotografia..
Violent Legacies, Richard Misrach. Pubblicato da Aperture, New York, 1992.



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